RUBRICA AGGIORNAMENTO GIURISPRUDENZIALE n. 9/2022
Appalti: cauzione provvisoria esclusivamente con bonifico.
Con la pubblicazione in Gazzetta della legge di conversione del d.l. n.73/2022 (Sostegni-bis), si aggiungono ulteriori ritocchi al sistema del Codice Appalti.
Due le piccole modifiche introdotte dal provvedimento. La prima (art. 17) interviene, in realtà, sul d.P.R. n. 605/1973, abrogando l'obbligo per le amministrazioni committenti di
comunicare all'anagrafe tributaria gli estremi dei contratti di appalto, di somministrazione e di trasporto conclusi mediante scrittura privata e non registrati. Con la seconda modifica (art. 29) si incide, invece, direttamente sull'art. 93 del Codice, prevedendo per la cauzione provvisoria la sola modalità del bonifico bancario, eliminando ogni altra possibilità finora prevista. Nulla cambia invece per la fideiussione.
Cons. Stat., sez. V, sent. n. 5677/2022: in caso di offerta anomala va attivata la fase interlocutoria se i giustificativi non sono sufficienti a formulare un giudizio di incongruità.
Nel sub-procedimento di verifica della potenziale anomalia dell'offerta, il compito del RUP – anche eventualmente supportato dalla commissione di gara - è quello di giungere a un giudizio complessivo e definitivo sull'attendibilità sostanziale della proposta. Detto giudizio deve ben emergere, soprattutto nel caso dell'esclusione, dal provvedimento finale. Al contrario, deve ritenersi inammissibile una esclusione dell'aggiudicatario fondata sulla carenza di documenti (i giustificativi) qualora emerga che questi non sono sufficienti per una valutazione di anomalia. In tali casi, il RUP è tenuto ad avviare ulteriori fasi interlocutorie, soprattutto se previsto nel disciplinare di gara. É questa, in sintesi, la decisione del Consiglio di Stato.
Il giudice d'appello, sintetizzando, affronta la questione relativa alla correttezza di un sub-procedimento di verifica dell'anomalia concluso con affermazioni generiche, fondate sulla carenza dei giustificativi presentati dall'impresa e non basati sulla reale, dimostrata, anomalia.
Nel caso di specie, il provvedimento comunicato all'interessato precisava che “la commissione giudicatrice […] ha ritenuto i giustificativi presentati non sufficienti ad escludere l'anomalia, dando un giudizio di non congruità”.
In particolare, nel decisum si legge che “il procedimento di verifica di anomalia non richiede di sanzionare di suo carenze formali circa la produzione documentale da parte dell'impresa, ma abbia piuttosto lo scopo di vagliare preventivamente l'affidabilità dell'offerta”. Per ovviare a situazioni simili (di carenza nella documentazione prodotta) , la legge di gara, come anche nel caso di specie, normalmente prevede che, qualora il RUP non ritenesse sufficienti i giustificativi presentati per escludere l'anomalia, può richiedere ulteriori chiarimenti. Tale clausola, puntualizza il giudice, non può essere letta in termini di “facoltà libera e incondizionata in capo allo stesso Rup”. Una previsione simile, precisa il giudice, contiene una facoltà che deve leggersi/considerarsi “in termini funzionalizzati da parte dell'amministrazione”.
La possibilità interlocutoria, da ritenersi in realtà sempre ammessa, potrebbe non essere attivata solo se, attraverso i giustificativi, si giungesse ad una definitiva e compiuta valutazione, ma non anche nel caso in cui a tale decisione definitiva non si possa giungere per carenze dei giustificativi presentati. In sostanza, in tali casi il RUP non può ritenersi libero di attivare, o meno, la fase interlocutoria ma, invero, è tenuto ad avviarla.
In questo senso la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato (sentenza n. 4976/2020) precisa che rimane fermo il fatto che “laddove la stazione appaltante non sia in condizione di risolvere tutti i dubbi in ordine all'attendibilità dell'offerta soggetta a verifica di anomalia” l'esperimento di ulteriori fasi di contradditorio “è necessitato, non potendo l'amministrazione limitarsi a rilevare la semplice insufficienza della documentazione”.
Sotto il profilo pratico/operativo, pertanto, la stazione appaltante (e per essa il RUP) non può, in situazione di carente documentazione prodotta a giustificazione della congruità dell'offerta presentata, “sopperire direttamente all'assenza parziale di spiegazioni attraverso la conduzione di autonome ricerche di mercato sulla congruità dell'offerta, atteso che le carenze vanno risolte attraverso interlocuzione con l'impresa”.
Non è necessario, invece, attivare ulteriori fasi di interlocuzione nell'ipotesi in cui le giustificazioni prodotte, pur parziali, risultano comunque in grado di consentire la formulazione di un giudizio compiuto ovvero nel caso in cui “la stazione appaltante sia in grado di pervenire essa stessa di per sé a una conclusione in termini d'incongruità dell'offerta e conseguente esclusione a mente dell'art. 97, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016”.
Cons. Stat., sez. V, sent. n. 7709/2022: anche la risoluzione consensuale di un contratto può portare all’esclusione.
La risoluzione di un precedente contratto di appalto con altro committente può costituire legittima causa di esclusione dalla gara anche qualora si sia trattato, sotto il profilo formale, di risoluzione consensuale e non di risoluzione per inadempimento. Anche l'intervenuta risoluzione consensuale deve, quindi, essere oggetto di dichiarazione da parte del concorrente in sede di gara, al fine di consentire all'ente appaltante di avere un quadro compiuto della situazione del concorrente stesso ai fini delle sue autonome valutazioni. Tali valutazioni sono necessarie, in quanto la causa di esclusione, collegata a una precedente risoluzione contrattuale, non ha carattere automatico, ma presuppone un'adeguata attività di apprezzamento da parte dell'ente appaltante che tenga conto delle circostanze e della tempistica della stessa.
Nel caso di specie, un Comune aveva bandito una procedura aperta per l'affidamento di un servizio. Nell'ambito della gara, l'ente appaltante procedeva all'esclusione di un concorrente a seguito della constatazione della mancata dichiarazione, in sede di gara, della risoluzione di un precedente contratto di appalto con altro Comune per un servizio analogo. Il provvedimento di esclusione, unitamente alla conseguente aggiudicazione a favore di altro concorrente, veniva impugnato dall'interessato davanti al giudice amministrativo. L'esclusione era stata disposta in base a quanto previsto dall'art. 80, co. 5, lett. c- ter), del d.lgs. n. 50/2016. Tale disposizione prevede che sia escluso dalla gara il concorrente che abbia dimostrato significative e persistenti carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto che ne abbiano causato la risoluzione per inadempimento ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili. La norma aggiunge, inoltre, che, nel disporre in merito all'esclusione, l'ente appaltante motiva anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa.
Nel caso di specie, nonostante la precedente risoluzione fosse stata formalmente qualificata come consensuale, l'ente appaltante aveva accertato che, in realtà, la stessa era conseguenza della mancata utilizzazione di veicoli elettrici da parte dell'appaltatore, configurandosi tale carenza come inadempimento contrattuale. L'effetto era che tale risoluzione costituiva un'ipotesi di grave illecito professionale, come tale idonea a determinare l'esclusione dalla gara.
Il provvedimento di esclusione veniva impugnato dal concorrente davanti al giudice amministrativo. A fondamento del ricorso veniva evidenziato che, diversamente da quanto erroneamente argomentato da parte dell'ente committente, la risoluzione in esame era da considerarsi di tipo consensuale e non per inadempimento. Con la conseguenza che la stessa non era oggetto di un onere dichiarativo in capo al concorrente, non incidendo sull'integrità morale dello stesso.
Il Consiglio di Stato, ha confermato la decisione del giudice di primo grado, ricorda in primo luogo che la lett. c- ter) del co. 5 dell'articolo rappresenta un'articolazione – introdotta in un secondo momento dal legislatore - della più ampia ipotesi del grave errore professionale. La norma, come ricordato, qualifica l'errore professionale in termini di pregresso inadempimento che abbia comportato le conseguenze indicate – risoluzione, condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni equiparabili – e che l'ente appaltante valuti grave e sufficientemente ravvicinato nel tempo. Il Consiglio di Stato ribadisce che si tratta di una fattispecie che non determina un'esclusione automatica, ma che presuppone un'attività valutativa da parte dell'ente appaltante. Di conseguenza, il semplice fatto che vi sia stata una precedente risoluzione per inadempimento – o una condanna al risarcimento del danno o altra sanzione equivalente – non è, di per sé, causa di esclusione dalla gara, ma lo diviene solo se l'ente appaltante, all'esito delle sue valutazioni, ritenga che tali eventi abbiano inciso sull'affidabilità del concorrente, anche tenendo conto della gravità della violazione e del tempo trascorso dalla stessa.
Ciò premesso, il giudice d'appello evidenzia come la questione da risolvere si traduca nella corretta definizione degli obblighi dichiarativi che gravano sul concorrente in sede di gara. Si tratta, cioè, di stabilire se tra tali obblighi dichiarativi rientri l'avvenuta risoluzione consensuale di un precedente contratto di appalto. Al riguardo, viene in primo luogo ricordato che l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che i richiamati obblighi dichiarativi hanno la finalità di assicurare lo svolgimento di una competizione corretta e trasparente, mettendo gli enti appaltanti nelle condizioni di conoscere tutti i fatti rilevanti riguardanti i concorrenti.
Anche in questa logica, il Consiglio di Stato ritiene che della previsione contenuta alla lett. c – ter), del co. 5 dell'art. 80, non possa darsi una lettura formalistica, se non si vuole tradire la ratio della norma e pregiudicare il ruolo dell'ente appaltante nello svolgimento della sua attività valutativa. Di conseguenza, si deve ritenere che la previsione debba essere riferita tanto all'ipotesi in cui la risoluzione di un precedente contratto di appalto sia conseguenza di un inadempimento dell'appaltatore – come espressamente previsto dalla stessa – sia, anche, all'ipotesi in cui tale risoluzione sia l'effetto di una libera volontà delle parti di non proseguire nell'esecuzione del contratto. L'ulteriore conseguenza è che il concorrente in sede di gara deve dichiarare anche l'intervenuta risoluzione consensuale di un precedente contratto di appalto ogniqualvolta la stessa sia dipesa da comportamenti idonei a mettere in dubbio l'integrità e affidabilità del concorrente stesso. Il che, nei fatti, significa dichiarare qualunque risoluzione intervenuta, a meno che non sia palese che la stessa è effettivamente il frutto di una libera volontà delle parti.
In questo modo il giudice amministrativo accoglie una lettura sostanzialistica della norma. Ciò, anche alla luce della considerazione secondo cui la risoluzione, pur essendo formalmente consensuale in quanto frutto di un accordo tra le parti e non di un provvedimento unilaterale dell'ente appaltante, potrebbe essere conseguenza di un comportamento inadempiente dell'appaltatore, idoneo ad essere valutato sotto il profilo dell'affidabilità professionale del concorrente.
Anche ai fini degli obblighi dichiarativi del concorrente, viene, quindi, in rilievo il fatto storico in sé – cioè la risoluzione del precedente contratto di appalto – senza che assuma rilievo dirimente la natura (consensuale o meno) dell'atto con cui tale risoluzione è intervenuta. E ciò, anche al fine di consentire all'ente appaltante una compiuta valutazione su ogni episodio potenzialmente in grado di influire sull'affidabilità del concorrente.
Alla luce di queste considerazioni, il Consiglio di Stato conclude nel senso della legittimità nel caso di specie dell'esclusione del concorrente, che era tenuto a dichiarare l'intervenuta risoluzione del precedente contratto di appalto, ancorché la stessa fosse stata formalmente qualificata come consensuale.